Assicurazione del Debito

In uno scenario economico caratterizzato dalla contrazione di volumi di vendita e dei fatturati i rischi di insolvenza da parte di operatori che non riescono rispettare gli impegni di pagamento nei confronti dei loro fornitori tendono ad aumentare.

Sempre più imprese faticano a rispettare gli impegni di pagamento verso Banche e fornitori

E’ purtroppo noto l’effetto dannoso e distruttivo di un mancato pagamento da parte di imprese insolventi che – probabilmente – sono anch’esse vittime di altrettanti problemi di incasso ma che, più o meno colpevolmente, provocano danni ai loro fornitori nel momento in cui non sono più in grado di pagarli.

La frequenza di questi fenomeni va ad aggravare uno scenario economico italiano piuttosto incerto e che richiederebbe la necessità di “soluzioni” – anche legislative – tese ad attenuarne i danni, e le conseguenze, dei ritardi di pagamento e delle insolvenze.

Ho affrontato per anni queste problematiche, che possono tuttavia essere mitigate da prodotti specifici per la riduzione del rischio, fra cui l’assicurazione del credito, che ritengo presenti il migliore rapporto costi/benefici; anche se il difficile contesto economico evidenzia la necessità di renderla ulteriormente più incisiva e tutelante, in ottica generale.

Ho infatti constatato spesso l’efficacia di questa polizza, a mio parere imprescindibile specie per le aziende che intendano esplorare nuovi mercati e approcciare nuova clientela, e questo nonostante costi di copertura non trascurabili ed un’operatività gestionale piuttosto impegnativa.

L’assicurazione del credito favorisce la stabilità finanziaria dell’impresa  ed è apprezzata da Banche, società di revisione e investitori.

Tuttavia, la sua efficacia è ancora piuttosto limitata poiché si tratta di un prodotto non ancora di uso comune ed è quindi circoscritta alla ristretta cerchia di coloro che l’hanno stipulata.

Riterrei quindi necessario introdurre novità e migliorie capaci di ampliare i benefici di questa polizza, alla luce di una sinistrosità dei mercati in leggera flessione, in Italia, ma pur sempre molto significativa, sia in termini di eventi che di importi totali impagati.

Analizzando il contesto e le logiche sottostanti le modalità di regolazione delle forniture, ovvero le responsabilità oggettive in capo ai soggetti debitori, riterrei opportuno ribaltare il principio di applicazione della polizza crediti poiché – concretamente – sono i debitori a provocare i sinistri, ovvero i mancati pagamenti nei confronti dei loro creditori.

E questo, a mio avviso, è un concetto fondante poiché un’impresa, nel momento in cui avvia la sua attività, contrae debiti e diviene, a tutti gli effetti, un soggetto potenzialmente in grado di danneggiare i fornitori, qualora non riuscisse a pagarli.

L’impresa assume dunque una sorta di “responsabilità commerciale”, o economica, nei confronti della collettività, esattamente come avviene per gli automobilisti che assumono una “responsabilità civile”, a fronte di eventuali danni che potrebbero arrecare a persone e cose, nel momento in cui si mettono alla guida di mezzi a motore.

Introduzione del concetto di “responsabilità economica” delle imprese

Io credo, pertanto, che imprese, professionisti e operatori economici dovrebbero essere tenuti a stipulare una polizza a favore della “collettività”, ovvero dei soggetti terzi con cui hanno rapporti di fornitura, a copertura degli eventuali danni da mancati pagamenti, qualora non potessero regolarizzare una o più forniture.

Penso allora ad una POLIZZA DEBITI, obbligatoria, o fortemente “richiesta” dal mercato, contratta dai debitori a favore dei creditori (fornitori) in caso di impossibilità ad effettuare i pagamenti.

Penso ad una polizza che erediti la logica di fondo della polizza RCA in campo automobilistico ma con un principio di funzionamento analogo a quello dell’attuale polizza crediti riguardo, ad esempio, al “limite di credito” (fido) che in questa polizza dovrebbe ovviamente essere “limite di debito” ovvero un massimale posto dalle compagnie assicurative riguardo all’esposizione debitoria nei confronti dei fornitori che ogni impresa assicurata non dovrà superare.

Limite di indebitamento verso i fornitori

Questo limite potrebbe apparire contrario alla giusta libertà gestionale dell’imprenditore ma io credo che un tetto massimo sugli acquisti posto dalle compagnie assicurative sulla base dello stato di salute delle imprese – ovvero una sorta di “merito di debito” (determinato dalle stesse metodologie valutative della polizza crediti) – potrebbe costituire un’importante tutela verso i fornitori ma anche verso le stesse aziende debitrici.

Questa polizza, infatti, potrebbe consentire alle imprese di ottimizzare gli acquisti grazie alla certezza dei loro fornitori di essere pagati ma anche di massimizzare le vendite, per la stessa sicurezza di essere pagati, dai clienti.

Io credo inoltre che una polizza per danni da mancato pagamento proteggerebbe le imprese insolventi dalle azioni legali eventualmente avviate nei loro confronti, dai loro creditori, e che, come già accennato, avrebbe ricadute sul loro stato di salute, andando ad aggravare ulteriormente le crisi già in atto.

Vorrei anche sottolineare che quella che oggi potrebbe apparire come una criticità della polizza crediti, ovvero i suoi costi piuttosto significativi – dovuti anche al fatto che tali coperture non possono ancora contare su un’ampia diffusione e distribuzione – potrebbe essere superata da una significativa maggiore diffusione della “polizza debiti” che consentirebbe alle Compagnie una migliore distribuzione del rischio su un bacino di utenza decisamente più significativo.

La polizza debiti, per la sua diffusione, dovrebbe costare meno dell’attuale polizza crediti

Vi sono, chiaramente, molteplici aspetti tecnici, legislativi, procedurali e perfino commerciali da analizzare prima di poter comprendere se questo tipo di polizza sia attuabile, concretamente, o meno.

Ed è altrettanto ovvio che la condizione primaria e assolutamente necessaria è che le Compagnie trovino sufficiente interesse economico verso un prodotto che si discosta parecchio da quelli attualmente in vigore.

Sul piano tecnico, quello che prevedo possa divenire una criticità, se non addirittura un ostacolo, riguarda l’assunzione di un rischio che sarebbe interamente in capo ad ogni singolo assicurato. Mentre con la polizza crediti è, in qualche modo, ripartito sulla totalità della sua clientela.

Ma questo, a mio parere, è superabile grazie ad accordi fra compagnie che, nel caso di obbligatorietà della polizza, potrebbero creare appositi fondi di garanzia o accordi preventivi e condivisi che portino ad una corretta ed equa ripartizione dei rischi.

Crescita economica, miti da sfatare

L’errata percezione di cosa sia realmente la crescita può essere la causa, o una delle cause, di questa una situazione che, in primis sul piano ambientale ma anche su quello economico, potremmo definire se non di vero e proprio pericolo, senz’altro di attenzione?

Non possiamo escluderlo.

A supporto di questa congettura si può provare a comprendere cosa sia la crescita in Natura facendo un raffronto, ovviamente semplicistico, tra quello che fa Madre Natura e quello che facciamo noi come individui, per capire se vi siano delle dissonanze che, una volta appianate, potrebbero aiutare a tracciare un percorso finalmente più consono.

La crescita in natura è un evento molto complesso che interessa lo sviluppo di fattori e condizioni endogene ed esogene, messe in atto volutamente o istintivamente, dagli organismi viventi. È un processo funzionale allo sviluppo e alla sopravvivenza di ogni specie animale e vegetale presente sul Pianeta che ha consentito ad ogni cellula di arrivare, in vita, fino a noi.

Vita e Crescita, dunque, possono essere viste, e perseguite, come complementari fino al punto da significare sostanzialmente la stessa cosa. Perché senza vita non ci può essere crescita e senza crescita non ci può essere vita.

Semplificando il più possibile, si potrebbe ritenere che i sistemi economici, intesi come “organismi viventi”, non si discostino troppo da questo principio di funzionamento. Tuttavia, è prassi consolidata quella di intendere la crescita economica nella sua accezione più semplicistica, banalizzando un evento che, senza l’apporto di tutti i suoi fondamentali elementi, potrebbe spingere a commettere errori nel provare a perseguirlo; perseguendo una crescita che nella realtà non è vera crescita!

Molto è attribuibile al fatto che la crescita economica, un evento anch’esso complesso, venga perseguita spesso nella sola oscillazione degli indicatori numerici. E questo, in presenza di condizioni assimilabili a quelle che caratterizzano la crescita degli esseri viventi, potrebbe essere una metodologia realmente poco rappresentativa. Pertanto, il solo incremento, o decremento, dei parametri quantificabili, attraverso una misurazione empirica dei “numeri” di riferimento, comunemente usati per comprendere un fenomeno complesso e articolato come la crescita, per definire come perseguirla, e se la stessa sia stata raggiunta, o meno, potrebbe risultare una metrica non sufficientemente esaustiva.

Eppure, l’utilizzo di questi criteri di valutazione e l’analisi semplicistica del differenziale fra un valore iniziale e uno finale è ancora ritenuta corretta, anzi come l’unica che abbia senso. Ma se la sua attendibilità fosse messa in discussione, anche solo per un attimo, ovvero se la sua sussistenza (come parametro isolato) iniziasse a mostrare qualche segno di cedimento, non si potrebbe allora escludere che tale incompleta visione della crescita economica sia, effettivamente da ritenersi quale responsabile, o corresponsabile, di una situazione paradossale; uno sforzo enorme volto a perseguire obiettivi illusori e fuorvianti di una crescita che, nella realtà, non è crescita.

Se venisse constatata la fondatezza di questo semplicistico ragionamento si potrebbe considerare l’ipotesi di legare e intendere la crescita economica a molti altri fattori oggettivi e rappresentativi che potrebbero essere introdotti in una sorta di nuovo algoritmo contenente valori e fattori non solo numerici, oltre a quelli squisitamente economici e finanziari, che certifichino la reale capacità di un soggetto di generare continuità, innanzitutto.

Se dovesse invece prevalere la convinzione attuale, che vede la crescita come la mera misurazione del differenziale fra le condizioni numeriche iniziali e quelle finali, in un intervallo di tempo preso a riferimento (e cioè se la crescita seguiterà ad essere vista, e perseguita prendendo a riferimento il mero incremento, o decremento, di numeri, volumi, consumi e fatturati), rischieremmo di profondere grossi sforzi per inseguire qualcosa di effimero, illusorio e dannoso. Un risultato errato e fuorviante che si discosta, anche parecchio, dalla crescita reale e che potrebbe presentarci, molto presto, un conto salatissimo, forse impossibile da sostenere.

 

 

CCR Coefficente di Crescita Reale

Un nuovo indicatore di Crescita (reale) potrebbe imprimere continuità alle imprese e favorire la stabilità dei mercati.

Per quanto anche i “numeri” debbano necessariamente essere presi a riferimento come i primi indicatori dello stato di salute di un qualsivoglia soggetto economico o istituzionale, sarebbe necessario prestare maggiore attenzione agli aspetti capaci di generare valore reale nel breve, medio e lungo periodo. Ciò potrebbe richiedere la definizione di nuovi indicatori e lo sviluppo della capacità sia di produrli che di leggerli e interpretarli; anche da parte delle società di rating, Banche, investitori, partner, Cittadini.

L’obiettivo è quello di favorire l’avvento di nuove logiche gestionali attraverso l’introduzione di strumenti di analisi più consoni alla misurazione, più che dello stato di salute attuale, delle reali potenzialità di crescita, in ottica soprattutto futura. Algoritmi tesi ad evidenziare, con immediatezza, fattori e prerogative di stabilità, continuità e benessere capaci di prescindere, talvolta, dall’andamento economico e patrimoniale.

A tale scopo si potrebbe definire un indicatore che potremmo chiamare CCR (coefficiente di crescita reale), giusto a titolo di esempio, volto a rappresentare in modo sintetico e facilmente comprensibile il potenziale intrinseco di un’entità economica o istituzionale, ovvero la sua capacità di generare crescita e valore, e di mantenerlo nel tempo. Un coefficiente che dovrà mostrare condizioni e fattori economici esistenti (sinteticamente raffigurati attraverso l’analisi dei valori di bilancio) ma, più ancora, l’impegno – anche economico – dedicato dall’imprenditore, o dall’istituzione, a mettere in atto tutte le misure necessarie a garantire la massima continuità dell’attività, nel pieno rispetto delle persone e dell’ambiente.

Un nuovo parametro dunque, di facile lettura, pensato per rappresentare, sinteticamente, sia lo stato di salute attuale che, più ancora, la capacità e la volontà di migliorare le performances in termini di fatturato, redditività, liquidità, ecc.. Dimostrando, inoltre, la capacità e le condizioni caratteristiche tese all’avvio e al sostegno di programmi di sviluppo capaci di garantire continuità e stabilità all’attività imprenditoriale. Un coefficiente che ponga attenzione ai fattori peculiari in grado di generare crescita interna, nel pieno rispetto dell’ambiente e del contesto generale.

Stesso discorso, anche se rappresentabile da logiche sottostanti differenti, potremmo immaginarlo nella gestione politico-amministrativa di Comuni, Province, Regioni. In questi ambiti, tuttavia, dovranno trovare maggiore rilevanza aspetti di tipo sociale, improntati alle condizioni di vita e al benessere delle persone. In pratica, il CCR potrebbe aiutare non solo a misurare ma anche a stimolare l’impegno delle Istituzioni ad anteporre gli obiettivi di crescita reale, nel tempo, a quelli più squisitamente numerici che vengono solitamente utilizzati per la lettura dello stato di salute economica attuale.

Ma cosa significa crescita reale, in ambiti nazionali e sociali? PIL, disavanzo, debito pubblico? Anche, ma io credo, come già evidenziato, che la crescita in ambito sociale dovrà essere perseguita, e misurata, osservando la capacità di garantire benessere alla popolazione in ottica di lungo periodo, aumentando le aspettative e la qualità della vita di tutte le fasce sociali.

Crescita è la capacità di garantire un futuro di lavoro ai giovani e condizioni di salute agli anziani e per questo diviene fondante riuscire a porre nuove basi di uno sviluppo socio-economico diffuso e sostenibile basato, a sua volta, su un sistema scolastico più moderno capace di avvicinare i giovani al lavoro; un mondo del lavoro più flessibile e più veloce a recepire i molti cambiamenti in atto.

Crescita è la capacità di salvaguardare le imprese grazie a politiche fiscali e di finanza pubblica capaci di sorreggere anche quelle in crisi, stimolando le grandi ad essere sempre più sostenibili.

Crescita, più di tutto, dovrà essere la capacità di regalare a tutti la possibilità di guardare al futuro con ritrovato ottimismo, affrontando problematiche attuali, stringenti e sfidanti.

Il CCR, più in generale, potrebbe così aiutare a pianificare una strategia futura più tutelante e rassicurante, dimostrando, prima a sé e poi agli altri, dove vogliamo andare e se ne abbiamo le capacità.  A differenza quindi dagli abituali indicatori di bilancio volti a misurare l’andamento economico soprattutto attuale, solitamente raffrontato agli esercizi immediatamente precedenti, il coefficiente di crescita reale potrebbe divenire un “numero” che, per quanto sintetico, sia capace di mostrare se vi siano capacità e impegno tesi a creare valore e benessere diffuso e, più ancora, se lo stesso possa essere garantito nel futuro.

Il CCR nella vita pubblica, invece, dovrebbe evidenziare l’impegno delle Amministrazioni locali a formulare percorsi di crescita inclusivi e uno sviluppo socio-economico in grado di migliorare, progressivamente, il livello di benessere dei cittadini. Questo potrebbe favorire l’ingresso ad una maggiore attenzione da parte delle Istituzioni ad amministrare correttamente le risorse a disposizione ma anche, o soprattutto, l’impegno ad introdurre incentivi dedicati alla nascita di nuove attività economiche e nuovi servizi rivolti alla comunità.

Il CCR potrebbe misurare altresì il livello di soddisfazione della popolazione e questo poiché la crescita in ambiti sociali non dovrà affatto prescindere dalla presenza di un sentimento e di un sentore comune. Una sorta di percezione che dovrà divenire rassicurante grazie a condizioni di auspicabile benessere, attuale e futuro. Una consapevolezza rassicurante dei cittadini relativamente alle reali possibilità di tenuta o di miglioramento delle condizioni utili a garantire a tutti un percorso di vita dignitoso; sintetizzabili nella crescita reale.

Tuttavia, si tratta di conquiste che non potranno più essere attribuibili alla “sola” buona gestione della cosa pubblica da parte delle amministrazioni locali, ma richiederanno un coinvolgimento della cittadinanza che dovrà prendere parte ai percorsi di sviluppo del prossimo futuro. Diversamente, il mancato avvio di un vero e proprio gioco di squadra fra Cittadini e Istituzioni diverrà, via via, sempre più limitante.

Le sfide future si prospettano complesse e ambiziose al punto da richiedere, necessariamente, un coinvolgimento diretto della collettività chiamata a fornire un imprescindibile apporto in termini innanzitutto di idee e creatività. Ritenere, infatti, che la Pubblica Amministrazione, cosi come la stessa classe politica centrale, possano seguitare a gestire le immense problematiche e gli obiettivi di crescita sempre più complessi con le stesse modalità di oggi, è semplicemente illusorio. Non penso affatto ad una sorta di delegittimazione del ruolo della classe politica ma ad una presa di coscienza delle crescenti difficoltà, sul piano sociale, economico e – forse più di tutto – su quello ambientale che imporranno, di fatto, l’avvio di un percorso caratterizzato da una proficua condivisione delle scelte e ad una gestione sempre più corale e condivisa dei percorsi volti a perseguirle.

I Cittadini e le figure istituzionali deputate a rappresentarli, dovranno quindi divenire partner e questo richiederà una forte predisposizione al dialogo, oltre ad una grande serietà e senso di responsabilità. Inoltre, si renderanno necessari nuovi e adeguati strumenti attuativi volti a favorire una fattiva collaborazione che dovrà consentire, a pieno regime, l’avvio di progetti in cui i Cittadini siano coinvolti tanto nella definizione delle priorità d’intervento (ad esempio; lavori di pubblica utilità) quanto nelle fasi realizzative e attuative dei lavori. Senza ovviamente escludere la necessità della loro presenza persino nella fase di raccolta delle risorse, innanzitutto finanziarie, grazie all’avvento di virtuose forme di partenariato pubblico-privato che dovranno colmare la sempre più frequente carenza di risorse finanziarie centrali, in ambiti soprattutto locali. Ciò che potrebbe favorire questo nuovo percorso non è solamente quella sorta di simbiosi sinergica fra pubblico e privato – che io trovo imprescindibile e realmente strategica – ma un ritrovato senso di responsabilità sociale e ambientale, da cui non potremo più prescindere se vorremo assistere, e beneficiare, ai molti cambiamenti attesi.

CER Corporate Economic Responsibility

Azioni e comportamenti corretti, da parte dei grandi operatori, aiuterebbero la soppravvivenza dei tessuti produttivi locali.

L’obiettivo è di porre in evidenza la necessità di introdurre una nuova cultura aziendale improntata su condotte corrette e inclusive a tutela dei tessuti produttivi locali che, mai come ora, garantiscono una “biodiversità economica” imprescindibile per il mantenimento di condizioni di sviluppo e benessere, oltre che dei giusti livelli occupazionali in ambiti locali.

E poi di nuovi modi per perseguirla ed evidenziarla, consentendo a tutti i soggetti interessati più consapevolezza sulle virtù, o sui difetti, dei grandi operatori e se gli stessi si stiano muovendo nella direzione auspicata, ovvero adottando logiche gestionali afferenti a una sostenibilità di tipo sia ambientale e sia economico; quest’ultimo potrebbe presto assumere una rilevanza altrettanto importante, rispetto a quella ambientale. La tenuta dei tessuti produttivi,

Una particolare attenzione, nella gestione della politica attuata o a completamento della stessa, che, giusto a titolo di esempio, potrebbe essere denominata CER (Corporate Economic Responsibility). Un impegno a garantire che l’impatto della loro attività economica non vada a ripercuotersi, con effetti negativi, sul contesto economico in cui operano.

Ciò è riscontrabile, in tema di Credit Management, sulle politiche adottate con i clienti morosi, innanzitutto. E, cioè, di come l’operatore scelga di muoversi in tutte le fasi di gestione sia delle controversie e sia delle problematiche di pagamento della clientela di tipo innanzitutto industriale.

I limiti e le criticità peculiari di una ricerca ossessiva dell’innalzamento progressivo dei soli “numeri” di bilancio, tanto nelle aziende quanto in ambiti sociali, sono palesati dalla conseguente perdita di attenzione verso fattori anche più importanti, come la capacità di garantire continuità; la prima vera mission e il primo vero indicatore di una corretta strategia.

Tant’è che i bilanci, come sono strutturati oggi, faticano a rispecchiare il reale stato di salute di un’impresa. Mancano cioè di evidenziare la sua vera capacità di generare valore tangibile, nel tempo. Tolta l’evidenza delle sole variazioni economiche e monetarie attuali, perfettamente enunciate, non raccontano neppure se la gestione caratteristica venga attuata con capacità e rispetto, nei confronti del contesto interno ed esterno e dello scenario, anche economico, di riferimento.

I Rapporti di Sostenibilità, forse più ancora, redatti al fine di porre in evidenza sensibilità e attenzione verso temi innanzitutto ambientali, da parte dell’azienda che li redige, non sono quasi mai strutturati al fine di mostrare al pubblico cosa stia facendo – concretamente – per la tutela di una sostenibilità, sia economica e sia ambientale. Così, come non mostrano se esista una politica gestionale atta a promuovere l’etica, dentro e fuori l’azienda stessa. Ovvero, non indicano se vi sia coerenza fra quanto riportato in questi eleganti documenti, che hanno senz’altro il merito di aver indotto un crescente impegno nella causa della sostenibilità, e le politiche adottate, realmente rispettose. Non vanno cioè ad esprimere se nella gestione ordinaria dell’impresa sia posta la doverosa attenzione verso l’adozione di atteggiamenti realmente inclusivi. Se le strategie di gestione ordinaria e straordinaria siano effettivamente rispettose oppure seguitino ad anteporre i risultati economici, ovviamente interni, al rispetto e alla tutela dei contesti esterni e della tenuta del tessuto produttivo circostante.

Questi documenti sono rendicontazioni sommarie che non sempre riportano, o non lo fanno in modo sufficientemente circostanziato, cosa faccia l’azienda per la tutela ambientale e per il rispetto dei sistemi economici in cui opera.

Sontuosi documenti, intrisi di confortanti notizie che propinano un virtuosismo che può apparire illusorio. Non riescono cioè a celare inequivocabili tratti di un Marketing di facciata, molto in voga nell’era della sostenibilità, che complica l’analisi realistica della politica aziendale. Rimane allora arduo il compito di chi voglia comprendere come un’azienda si ponga nei confronti dell’Ambiente e del suo mercato di riferimento. Come si comporti con i partner, i clienti, i fornitori e perfino con il personale e i collaboratori esterni. Se agisca con rispetto o seguiti a perseguire logiche di sviluppo irrispettose e irresponsabili. Se nella gestione caratteristica e nello svolgimento della sua attività core, in buona sostanza, sia concretamente impegnata a perseguire i suoi peculiari obiettivi di crescita, in linea con un pieno e giusto rispetto del “mondo circostante”.

Criticità nel Credit Management

È superfluo rimarcare che una gestione poco attenta dello scaduto, specie se attuata da imprese afflitte da tensioni finanziarie endogene, penalizza anche la gestione del debito. Errate strategie di recovery non consentono di disporre della liquidità necessaria a pagare i fornitori e specie se vi sia una poca attitudine a gestire gli atteggiamenti intimidatori dei creditori la gestione del ciclo passivo e delle forniture subisce gravi contraccolpi.

Non per niente, i crediti impagati sono annoverati fra le prime cause delle crisi aziendali, molte delle quali trovano appunto origine in una cattiva politica del credito. È indubbio, quindi, che in tema di Credit Management e di azioni di recovery i margini di miglioramento siano importanti e le metodologie dovranno essere messe a punto con più attenzione di quella prestata finora.

Emerge un gap significativo, più che in termini di know-how, nella sostanziale assenza di strategie calate sulle molteplici problematiche. Le logiche di recupero sono per lo più caratterizzate da approcci standardizzati che non tengono conto delle molteplici sfaccettature che contraddistinguono ogni singolo incaglio di pagamento e, più ancora, degli andamenti dei mercati di appartenenza dei debitori. La mancanza di informazioni veritiere riguardo all’effettivo stato di salute dei debitori, monitorabile attraverso sopralluoghi e approfondite analisi di bilancio, provoca la messa in atto di comportamenti che divengono troppo severi, verso chi è in difficoltà, e troppo indulgenti verso chi ritarda volutamente i pagamenti.

Una gestione delle insolvenze grossolana e aggressiva finisce per penalizzare il rapporto di fiducia fra cliente e fornitore prima che le controversie diventino insanabili. Molte spaccature che si potevano evitare incrinano i rapporti commerciali e congelano le morosità, senza risolverle. La fase ufficiale di recupero viene spesso avviata prima dei doverosi tentativi di ricercare soluzioni amichevoli e negoziali.

Maggiori abilità di incasso sono invece imprescindibili per molte imprese che intendano migliorare il proprio rating, più che per un doveroso contenimento del costo del denaro, per la disponibilità oggettiva dello stesso. Parimenti, un approccio più attento e circostanziato favorirà anche i gestori di stock di crediti che grazie a specifico know-how in fase di esazione, sebbene rispettoso di un contesto economico da preservare, aiuterà a migliorare le performances e a rendere più profittevole un settore in crescita.

È anche doveroso precisare che i problemi di pagamento non riguardano solamente i creditori – la cosiddetta “parte lesa” – a cui viene generalmente prestato soccorso – ma coinvolgono una pletora di debitori soggiogati anch’essi da un credit crunch invalidante. Molti di loro sono impreparati a gestire i ritardi di pagamento con il giusto approccio e non sono in grado di fronteggiare le pretese (non sempre lecite) dei creditori, anch’essi in difficoltà. L’incapacità di gestire i crediti si traduce, allora, nella difficoltà a gestire i debiti e questo provoca un effetto a catena senza soluzione di continuità.

Una scarsa predisposizione alla risoluzione consensuale delle controversie, ad esempio, siano esse di natura finanziaria o tecnica, produce atteggiamenti spesso estremi che vanno dall’interruzione delle forniture fino all’avvio precipitoso di procedure di recupero coattivo costose e destabilizzanti. Non emerge, cioè, la consapevolezza che moltissimi problemi di pagamento/incasso potrebbero essere gestiti in ottica risolutiva anche in presenza di difficoltà oggettive o quando i margini di trattativa paiono flebili. E anche dove gli incagli potrebbero essere affrontati in via negoziale, ricercando soluzioni tese innanzitutto a liberare la liquidità incagliata, a monte o a valle della filiera produttivo-commerciale, un’aggressività ritenuta risolutiva finisce per penalizzare tanto i creditori quanto i creditori.

Incapacità e lassismo incentivano l’avvio di azioni spesso inadeguate che inducono tanto all’aggressività (avvio di procedure di recupero tese ad indebolire la controparte) quanto alla sostanziale rinuncia ai propri diritti dichiarando perdite anche in presenza di concrete possibilità di recupero.

Provando a sintetizzare la situazione, i margini di crescita giustificano, o impongono, la ricerca di qualcosa di nuovo.

L’etica nel Credito

L’Etica nel Credito, intesa come l’introduzione di metodologie inclusive basate sul rispetto dei soggetti in difficoltà, oltre che sui positivi risvolti economici che potrebbero derivare dallo sviluppo di atteggiamenti più responsabili e attenti, non dovrebbe essere ritenuta virtuosa solo poiché corretta ma tesa a rappresentare l’unica chances di rivitalizzare un’economia stanca. Una cultura che ponga di nuovo al centro le imprese e le persone non andrebbe quindi vista come necessaria, per ragioni essenzialmente etiche – sebbene doverose – ma quale possibile panacea di uno scenario complesso che richiede gioco di squadra.

Ethical Credit è una nuova branca del Credit Management che trae origine dalle linee guida enunciate nel più ampio “disegno” Innovazione Etica che sollecita maggiore impegno nella ricerca di modelli di sviluppo e di business sostenibile inclusivi e volti alla tutela degli ecosistemi, anche economici.

Ethical Credit sprona soprattutto le grandi imprese a promuovere atteggiamenti di “responsabilità economica” attraverso un inedito impegno a limitare i comportamenti che possano danneggiare in primis le imprese minori. Ma questo, non solo a favore dell’apertura di una stagione di ripresa sorretta da un clima di reciproco rispetto, che si auspica divenga collaborativo, ma proprio perché l’adozione di strategie attuative volte alla soluzione amichevole di una moltitudine di incagli – per restare su aspetti squisitamente inerenti alla gestione del credito – è molto più efficace, tanto per debitore quanto per il creditore.

Politiche del credito a sfondo etico, infatti, produrranno benefici anche nei confronti di chi le attua e daranno ossigeno ad una moltitudine di imprese che, in difetto, non riusciranno a sopravvivere. E se ciò avvenisse, le ripercussioni economiche all’interno di paesi sorretti dalla pletora di realtà medio-piccole, come l’Italia, sarebbe devastante.

Scenario pagamenti

I ritardi di pagamento si possono annoverare sia fra gli effetti che fra le cause di una fase congiunturale incerta che sta alterando le economie nazionali e internazionali. 

I comparti più penalizzati sono i tessuti produttivi locali spossati dalla contrazione dei volumi e da un credit crunch perpetrato da un sistema creditizio che subisce anch’esso i contraccolpi delle insolvenze che riguardano anche il settore immobiliare e del credito al consumo. Recenti norme comunitarie, tese a garantire la stabilità delle Banche più esposte, hanno aggravato lo scenario imponendo una stretta ai finanziamenti alle imprese (v. Basile 3), nel rispetto di un coefficiente sempre più stringente fra patrimonio netto e prestiti concessi, che si è ripercossa sulle imprese innanzitutto minori (PMI).

È un salto di qualità della crisi, potremmo dire, perché le Banche apparivano solide, nonostante tutto, capaci cioè di sostenere un trend di sviluppo economico che da entusiastico è divenuto flebile, con l’apertura dei mercati, e che adesso deve anche fare i conti con una liquidità che non viene immessa nel mondo produttivo, complici i bassi tassi d’interesse e una bassa marginalità legata alle attività di erogazione.

Il nostro attuale è un quadro fosco, dunque, evidenziato sia dai recenti focus sulla situazione dei pagamenti, italiani e UE, che dalla mole di NPL che appesantiscono i bilanci di banche e imprese.

Una cultura di Credit Management non sempre all’altezza della situazione non aiuta a fronteggiare il fenomeno dei mancati pagamenti e pare impreparata ad affrontare una situazione di inedita difficoltà. Non emerge, ad esempio, la capacità di comprendere che nei mercati globali il rapporto di causa-effetto fra gli atteggiamenti adottati e i conseguenti effetti collaterali, finisce per penalizzare tanto i debitori quanto i creditori.  

Azioni incuranti delle difficoltà delle imprese in crisi finiscono per ripercuotersi perfino sulle realtà sane. Ed è la globalizzazione che lega tutto e tutti a doppio filo ad imporre un’attenzione inedita che non può più solo riguardare la propria salute ma, strano a dirsi, anche quella degli altri.

I volumi di NPL e UTP parlano chiaro e le molte sofferenze che minano la stabilità delle imprese, delle banche e delle economie nazionali e comunitarie ne sono la prova. L’entusiasmo che accompagna le cessioni di NPL pare dunque eccessivo e perfino immotivato sia perché il pricing di molte operazioni è quasi sempre irrisorio e sia perché, a ben vedere, il problema dei mancati pagamenti è stato semplicemente spostato, non certo risolto. Le s-vendite dei crediti tossici generano ottimismo ma la bolla speculativa generata dalle molte cartolarizzazioni che hanno seguito lo smaltimento dei crediti deteriorati, sebbene sorretta da garanzie statali (GAGS), potrebbe anche scoppiare, se dopo i molti “cambi di mano” i crediti non saranno recuperati.